LE SORELLE KESSLER
(by Zarish Imelda Neno)
Oggi ho letto la notizia del suicidio assistito di Alice ed Ellen Kessler. Ho letto il loro “testamento umano e spirituale”, e subito dopo ho visto come molte persone, soprattutto qui in Occidente, hanno applaudito il loro gesto definendolo libertà, amore, dignità. E mi è venuto un nodo allo stomaco.
Forse perché io vengo da un Paese dove la libertà è rara, preziosa, e spesso negata. Soprattutto alle donne. Forse perché so cosa significa vivere sotto un sistema che non ti permette di scegliere nulla — né dove andare, né come vestirti, né se studiare, lavorare o difenderti. Forse perché ho visto donne morire senza aver mai davvero vissuto. E vedere la parola libertà usata per definire la scelta di morire, quando in tanti Paesi la gente lotta disperatamente per avere la libertà di vivere… mi ha confusa, ferita, scioccata.
Le parole delle sorelle:
“Il nostro desiderio è andarcene insieme, lo stesso giorno. L’idea che a una delle due capiti prima è molto difficile da sopportare. Io e Ellen vogliamo che le nostre ceneri vengano mischiate con quelle di nostra madre… L’urna comune fa risparmiare spazio. Al giorno d’oggi si dovrebbe risparmiare spazio ovunque. Anche al cimitero.”
Queste parole mi hanno gelata. E poi ho letto l’articolo che le elogiava: “Hanno scelto di essere libere fino alla fine. Non mi viene in mente un atto d’amore, di libertà e di dignità più grande e commovente di questo. E nessuno di noi ha il diritto di sindacarlo.” E mentre leggevo questi commenti, il mio cuore si ribellava dentro di me.
Io non riesco a chiamare “libertà” la decisione di morire. Non riesco a chiamare “amore” il sottrarsi alla vita. Non riesco a chiamare “dignità” l’idea che il dolore, la vecchiaia, la malattia o la solitudine siano motivi sufficienti per programmare la propria fine. Forse perché vengo da un mondo dove la morte arriva da sola. Dove non puoi sceglierla, non puoi anticiparla, non puoi controllarla. Forse perché ho visto troppe vite spezzate senza possibilità di appello: donne cristiane uccise solo perché cristiane, ragazze costrette a matrimoni forzati, bambini privati dell’infanzia.
E allora mi chiedo: com’è possibile che chi ha tutto — libertà, diritti, sicurezza, medicine, assistenza — trasformi la morte in una scelta e la chiami anche “progresso”?
La cosa che mi ha sconvolta non è solo il gesto delle due sorelle, ma la reazione della gente. La celebrazione. Gli applausi. Il romanticizzare la morte. Viviamo in un’epoca dove ribaltare i significati sembra normale. Dove la sofferenza non ha più valore. Dove il dolore non è una parte del cammino umano ma qualcosa da evitare a ogni costo. Dove l’attesa della morte naturale non è più accettata.
E dove — mi duole dirlo — anche la Chiesa, a volte, fallisce nel ricordare il senso della vita, della sofferenza e soprattutto il valore che Dio ha posto nella nostra esistenza. Una Chiesa che in alcuni casi sembra avere paura di dire chiaramente che la vita è sacra, che non siamo noi i padroni della nostra fine, che la sofferenza — per quanto misteriosa — non è mai priva di significato agli occhi di Dio.
La fede mi ha insegnato che non siamo soli nel dolore. Che Cristo non ha evitato la sofferenza, ma l’ha portata, l’ha attraversata, l’ha trasformata. La fede mi ha insegnato che la morte non è una fuga programmabile, ma un incontro: l’incontro con Colui che ci ha creati. E che il tempo della nostra vita — anche quello più fragile — appartiene a Dio, non a noi.
Chi ha conosciuto la mancanza di libertà, non userà mai la parola libertà per giustificare la morte. La libertà è respirare. È poter camminare per strada senza paura. È poter pregare. È poter studiare. È poter vivere. È avere una nuova possibilità ogni giorno, anche quando la vita pesa. Questa, per me, è libertà. Non certo decidere la propria fine.
Se potessi portare queste persone in Pakistan anche solo per un giorno, farei vedere loro le donne che non possono uscire di casa da sole. Le ragazze che non possono scegliere il marito.