Una nuova sentenza iniqua. La Corte di Appello di Brescia, il 30 settembre scorso, ha confermato la condanna in primo grado - inflitta dal Tribunale monocratico di Bergamo - a sedici mesi di reclusione. Il tutto sulla base di una querela temeraria, nata in risposta ad una mia denuncia per diffamazione ed atti persecutori, risalente al 2014. Denuncia, come al solito, letteralmente evaporata.
E' il mese di aprile 2023, quando il Pubblico Ministero della Procura di Bergamo mi comunica la conclusione delle indagini a mio carico, informandomi che è mio diritto presentare memoria difensiva entro 10 giorni dalla consegna della notifica. Ovviamente invio la mia memoria, precisando che che gli addebiti non corrispondono alla realtà dei fatti, in quanto:
a) I contenuti che si ritengono diffamatori nei confronti della supposta "parte lesa", non sono stati vergati dal sottoscritto, ma da tale F.C., che si firma con il nickname di Mister Jones;
b) nel lasso di tempo contestato dalla Procura di Bergamo il mio account Facebook risultava bloccato;
c) la pagina Facebook a cui si fa riferimento, all'epoca, non era ancora esistente sul Social Network.
A rafforzamento alle mie argomentazioni presento al Pubblico Ministero una serie di screenshot, risalenti ad un periodo compreso tra il 2012 ed il 2018, nei quali sono presenti contenuti pesantemente diffamatori nei miei confronti, a firma del soggetto che è considerata, invece, parte lesa e che mi ha a sua volta querelato. Inoltre segnalo al P.M. che, non essendo stata verificata l'origine dei post (identificazione certa degli IP di provenienza), che si ritiene arbitrariamente scritti dal sottoscritto, le accuse restano infondate e per questo chiedo l'archiviazione. Invece vengo rinviato a giudizio, con l'accusa di diffamazione ed atti persecutori e nel 2024 il Giudice di Bergamo Beatrice Purita mi condanna ad un anno e quattro mesi di carcere senza la sospensione condizionale della pena. Tutto ciò sulla base di semplici indizi e con il solo supporto delle sole mendaci dichiarazioni della "parte lesa" e del suo testimone, considerandole attendibili senza ombra di dubbio. Al contrario il togato ritiene fallaci le mie prove a sostegno della mia estraneità ai fatti, poiché, a suo giudizio, il mio "profilo criminale" non permette di valutare come vere e credibili le "argomentazioni a difesa". Ciò in base ad un mero pregiudizio, palesato dal fatto che il Togato ha addirittura suggerito al testimone come descrivermi: "No Vax".
La Corte di Appello di Brescia, nonostante lo stesso Procuratore Generale abbia proposto una revisione delle valutazioni complessive a mio nocumento, fa invece sue le precostituite argomentazioni del Giudice di Primo Grado e conferma la prima sentenza del febbraio 2024. Una decisione aberrante.
In estrema sinteisi si ripete lo schema che è stato già percorso in tutti gli altri procedimenti penali a mio carico e cioè: colui che mi ha diffamato e che per anni ha oeprato "stalking", supera indenne le querele sporte dal sottoscritto (che vengono costentemente ignorate (e viene magicamente trasformato in "parte lesa" e, di conseguenza, chi scrive viene sottoposto ad ingiusto processo, istruito sulla base di becere menzogne e volgari manipolazioni.
La giurisprudenza della Cassazione italiana ha affrontato più volte la questione dell'onere probatorio nei reati commessi tramite social network, con particolare riferimento all'accertamento dell'effettiva paternità dei messaggi.
Principi generali consolidati:
La Cassazione ha stabilito che "non è sufficiente dimostrare che un profilo social sia intestato a una determinata persona" per attribuirle automaticamente la responsabilità dei contenuti pubblicati. È necessario un accertamento rigoroso sulla "paternità effettiva" del messaggio.
Elementi probatori richiesti:
Nelle sentenze in materia, la Suprema Corte ha evidenziato che l'accusa deve fornire prove concrete, tra cui: